SOGLIE
di Mario Rubino

Breve passeggiata nei dintorni del testo

Il narratologo francese Gérard Genette, in un suo allettante studio del 1987 dal titolo Seuils (trad. it. Soglie. I dintorni del testo ) ha cercato di descrivere, astraendone funzioni costanti e variabili, tutte quelle componenti di un'opera a stampa che si accompagnano al testo vero e proprio, come, ad esempio, il titolo, le dediche, le prefazioni, le note. L'insieme di questi elementi, per Genette, costituisce il “paratesto”, ed al suo interno egli distingue anche una parte di “peritesto” (formato, copertina, frontespizio, illustrazioni) ed una di “epitesto” (pubblicità, recensioni ed autorecensioni) che sono di più specifica competenza editoriale. Questi dintorni del testo, secondo Genette, sono come dei varchi, delle soglie appunto, che si offrono agli occhi dell'osservatore, invitandolo ad attraversarle per accedere al contenuto dell'opera; sempre che, beninteso, non producano invece un effetto dissuasivo, respingente, così da in­durre a non procedere oltre.

Un po' come August Dupin nella Lettera rubata di Poe, Genette ci ha fatto no­tare qualcosa che avevamo sempre visto, che avevamo avuto sempre sotto gli occhi, senza coglierne appieno l'importanza. Come leggeremmo l' Ulisse di Joyce, egli si chiede, se non s'intitolasse appunto così; quanto influisce sull'approccio ad un testo una prefazione “autoriale denegativa”, come quella premessa da Manzoni ai Promessi Sposi o da Eco al Nome della rosa ; che differenza fa se in un'opera, di cui non si sa molto, ci si imbatte nella veste popolare del tascabile o, all'altro estremo, in quella elitaria dell'edizione numerata? In altri termini, fermo restando il valore prioritario del testo, rimane in larga misura ancora da indagare, secondo Genette, quanto plu­sva­lore abbiano sempre aggiunto e continuino ad aggiungere tutti quegli acces­sori esterni ed interni, editoriali ed autoriali, iconici e verbali, che costi­tui­scono il paratesto.

L'autore di Soglie argomenta le proprie considerazioni con un gran nu­mero di esempi, presi però quasi tutti, com'è costume oltralpe, dall'area culturale francese, con qual­che rara incursione in quella anglosassone; così che al lettore italiano non resta che servirsi dei suggestivi cenni metodologici genettiani per estendere l'indagine anche ai dati relativi all'editoria del nostro Paese.

Limitando il discorso all'ambito del “peritesto editoriale”, per esempio, si può notare innanzi tutto la decadenza della copertina e della sopraccoperta, come elementi distintivi dello stile grafico del singolo editore. Simile in ciò alla carrozzeria delle automobili, la veste esteriore dei libri si è andata uniformando, dovendo ubbidire soprattutto a criteri di razionalizzazione produttiva e di standardizzazione funzionale. A parte le geniali sregolatezze dei piccoli editori e a parte la sobria tastiera arcobaleno dei volumi Adelphi, il gelido candore di quelli Einaudi o i filaretti bleu foncé della Sellerio, lo spettacolo di una libreria contempo­ranea è ben monotono, riuscendo ormai assai difficile, anche al bibliofilo più attento, distinguere a prima vista un libro Mondadori da uno Rizzoli o Bompiani o Garzanti, e prevalendo invece una grafica indifferenziata nella sua occasionalità da Club degli Editori. Appena qualche decennio fa, in li­breria, era ancora tutto un lampeggiare di segnali univoci e di richiami a contrasto: un bel verde brillante, la “Medusa” Mondadori; un austero grigio perla, la “B.U.R.”; un ottavo piccolo con titolo verticale ascendente a tutto dorso, le collane Longanesi; brossure gialle con titolo orizzontale, anche per i volumi più smilzi, “Letteratura Contemporanea” Vallecchi; e così via per for­mati e colori. E c'era poi la magia evocativa delle sopraccoperte illustrate, che con la loro sezione dorsale andavano a scandire le scaffalature domesti­che con immagini presto familiari e di cui si sentiva a lungo la mancanza, quando, irrimediabilmente sciupate dopo una lunga influenza a letto con qualche ricaduta o dopo una movimentata villeggiatura al mare, si era co­stretti ad eliminarle. Le vivaci sopracoperte, un po' Steiner e un po' Pollock, di Fulvio Bianconi per i “Romanzi Moderni” Garzanti: il vicolo impavesato di tricolori e di bucato del Pasticciaccio di Gadda; l' interieur Ottocento siciliano dei Vicerè di De Roberto; la rissa sull'erba dei Ragazzi di vita di Pasolini; l'allucinato Randolph in kimono di Altre voci, altre stanze di Capote. E quelle altre, tutta china leggera e marezzature d'acquarello, di Giorgio Tabet per gli “Omnibus” Mondadori. Chi è stato bambino o adolescente un po' prima o un po' dopo il 1940 non potrà mai dimenticare l'enigma di quei perso­naggi allineati qua e là, fra altri dorsi di libri coperti soltanto di parole, sui palchetti di uno scaffale dello studio o del soggiorno. Decifrare la loro mi­steriosa identità, che si sarebbe svelata solo più tardi, al lettore adulto, era qualcosa capace di stuzzicare anche la fantasia più pigra. C'era un signore in redingote avana e panciotto porpora, dai minuscoli baffetti e dall'aria molto imperiosa, anche per via di un frustino che stirava fra le mani chiuse a pu­gno, così che un bambino poteva attribuirgli un'infinità di ruoli, ignorando ancora chi fosse mai il capitano Rhett Butler di Via col vento . C'era un giovane timido e spaurito da far pena, successivamente identificato come il Filippo Carey di Schiavo d'amore . E poi c'erano i due vecchioni, uno per volume, della Saga dei Forsyte ; l'ufficiale con tricorno e sciabola sguainata di Cana­glia in armi ; il fiero moicano di Passaggio a nord ovest ; e tanti altri perso­naggi da combinare insieme a piacere in un piccolo teatrino di carta polve­rosa e un po' ingiallita.

I rivolgimenti ideali e materiali della produzione libraria hanno lasciato la loro traccia anche su un altro elemento del peritesto editoriale: il marchio iconico dell'editore, che poteva differenziarsi o raddoppiarsi nelle singole collane e che un tempo sembrava improponibile senza l'aggiunta di un motto programmatico, possibilmente in latino o, se in italiano, comunque governato da una qualche metrica. Certe volte, anzi, il motto era sicuro sin dall'inizio, mentre il marchio ci metteva un po' più di tempo a stabilizzarsi una volta e per tutte, come successe nei primi libri di Arnoldo Mondadori, all'inizio degli anni Venti: il motto “semper et ulterius progredi”, alternato al più conciso e risoluto “progredi”, rimase invariato (e resistette fino alla fine degli anni Quaranta), iscrivendosi però dapprincipio ora sotto un rubi­condo fanciullo che recava un alberello ora sotto una barca dalla gonfia vela latina. La fa­mosa palma spuntò solo qualche anno dopo e, in varie stilizza­zioni, con o senza quarto di luna affiancato, sarebbe rimasta a lungo il fortunato em­blema di una casa editrice fortunata: esattamente fino agli anni Cinquanta, quando fu sostituita dalla non meno celebre rosa, promossa a marchio edi­toriale generale, da semplice marchio settoriale della collana “I Classici / Fondazione Borletti”, e contornata dal motto “in su la cima”, estrapolato dalla terzina dantesca “ch'i' ho veduto tutto il verno prima / lo prun mo­strarsi rigido e feroce,/ poscia portar la rosa in su la cima”, la quale figu­rava per esteso in mezzo alla volta dell'occhiello della suddetta collana.

Oggi la rosa continua a fiorire soltanto sul frontespizio e sul colophon dei “Meridiani”, mentre sulla maggior parte dei volumi Mondadori la sigla AM, per eccesso di contrazione, si distingue a malapena dalla F sghemba posta su quelli Feltrinelli.

Eppure Arnoldo Mondadori e soprattutto la schiera di “creativi” di allora, di cui l'intraprendente editore aveva saputo circondarsi, primi fra tutti i leggendari Luigi Rusca ed Enrico Piceni (senza dimenticare il perfezionista bodoniano Giovanni Mardersteig e il versatile grafico Bruno Angoletta), erano stati un'instancabile fucina di “soglie” edi­toriali accattivanti. Basti pensare ai “libri gialli”, che con la loro copertina avrebbero regalato alla lingua italiana un felicissimo neologismo tutto suo, dato che in fran­cese e in inglese “giallo”, per via di altre copertine, non si­gnifica “poliziesco”, “misterioso”, ma “piccante” e “licenzioso”; o ai richiami imbonitori sopra il titolo dei primi romanzi della stessa collana: «Questo li­bro non vi lascerà dormire!», «Si legge d'un fiato!», «Un maestro del brivido!»; o agli inesauribili sotto­marchi delle singole collane, come ad esempio il labirinto di volumi sotto­scritto dal motto “Seguimi oramai ché'l gir mi piace”, che fregiava le coper­tine dei “libri azzurri”. Se oggi i libri Mondadori appaiono spogli e anonimi è segno che tutto questo armamentario di allettamenti lo si è voluto spostare, per esprimersi in termini genettiani, dal peritesto all'epitesto, dalle pa­gine del libro, cioè, alle interviste televisive ed alle tecniche di marketing . Il lettore allergico alle concitate imbecillità dei talk-show e disdegnoso del “prendi-tre-e-paghi-due”, però, ci rimane a bocca asciutta.

Ci si è fin qui dilungati sulla Mondadori come su quella che da molto tempo è la maggiore casa editrice italiana, almeno in quanto a fatturato. Ma la furia iconoclasta di quei manager e staff dirigenziali che hanno preso il posto dei vecchi editori e che migrano continuamente da un'azienda edi­toriale all'altra (verrà da lì l'intercambiabilità dei peritesti attuali?) si è fatta sentire anche altrove. La Rizzoli ha perso la sua fontana sovrastata dall'Orsa Maggiore, che zampillava ancora sui romanzi di Guareschi, e la Bompiani non ha più il suo VB, che, riquadrando le pagine d'un libro aperto, dava vita a un emblema spigoloso ma assai composto. Una sorte migliore è toccata a certi volatili, forse perché qualcuno di loro era una specie pro­tetta: sopravvivono il corvo della Dell'Oglio (“Io sono piccolo ma crescerò”), la fenice della Guanda e lo struzzo dell'Einaudi (“Spiritus durissima coquit”). Ma per can­guri (“Universale economica” Feltrinelli), delfini (Bompiani), gabbiani (Il Saggiatore) e pavoni (“I libri del pavone”) è stata tutta una mo­rìa.

Durante le pause di riflessione che di tanto in tanto intervallano il collo­quio col testo, insomma, mentre andava a far due passi in quel vestibolo o in quell'atrio posteriore che sono il frontespizio e il colophon di un volume, il lettore d'altri tempi poteva imbattersi in animali più o meno sottilmente allegorici, com'era, ad es., quello stracco ragno in mezzo ai trapezi della sua tela, appena confortato, forse, dalla circostante scritta “col buon voler s'aita” (Cappelli); energizzarsi à la Samuel Smiles per motti come “costruire” (Istituto Editoriale Italiano) e “per correr migliori acque” (Perrella) o sprofondare più languidamente nella poltrona per quelli di gusto pascoliano come “io sono la lampada ch'arde soave” (Petrella) e “non bramo altr'esca” (Barbera); sentirsi in mezzo ad un bosco o ad un porto per via dell'infinita quantità di alberi (Mondadori, Alpes, Paravia, Principato, Vallecchi, San­dron) e di navi (Ricciardi, Perrella, Trimarchi, “Sansoniana straniera”); te­nere in esercizio i propri rudimenti di latino con massime gravi come “in labore fructus” (Paravia), “fidentia fruemur” (Carabba), “ut robor robur” (Principato) e “laboravi fidenter” (Zanichelli), oppure dinamiche come “velorum pandimus alas” (“Sansoniana straniera”), “ventis secundis” (Ricciardi), “ex igne vis” (Andò) e “alteri saeculo” (Sandron); azzardare qualche indagine grafologica sulla personalità dell'autore (“si ritengono contraffatte le copie non firmate”); fantasticare su che covi di falsari ed evasori fiscali dovevano essere le nazioni citate nell'avvertenza: “proprietà letteraria riservata per tutti i paesi / compresi i Regni di Svezia, Norvegia e Olanda”; e così via, di soglia in soglia. L'acquirente di un libro di oggi (dato che non importa poi tanto che ne sia anche un lettore, e spesso ef­fettivamente è anche meglio per lui che non lo sia), invece, in quegli stessi luoghi liminari del volume trova assai poco di che lasciarsi suggestionare durante la sua pausa: appena ha finito la somma propiziatoria o cabalistica dei numeri di matricola ISBN, va subito a sbattere contro l'onnipresente grata del codice magnetico a barre, e gli viene in mente di averlo già visto, ricavandone la stessa sensazione sgradevole e straniante, sulle confezioni delle sapo­nette e dei formaggini.

© Mario Rubino

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