SIMENON, OVVERO QUATTRO ROMANZI
SCOLPITI IN UN PEZZO DI LEGNO
di Salvatore Ferlita
(Conferenza dell'11 novembre 2005)
«La fama scende sulla spalla di un autore come la mano della morte, ed è meglio per lui quando cade solo negli ultimi anni. Quanti al posto di Dickens sarebbero stati capaci di resistere a quello che James ha definito “il grande contatto contaminante col pubblico”, la popolarità fondata, come quasi sempre accade, sulla debolezza e non sulla forza di un autore»: queste parole di Graham Greene, spese a proposito dell'autore di David Copperfield , si attagliano bene a uno degli scrittori più sfuggenti e impenetrabili della storia letteraria europea: Georges Simenon. Il quale, del «grande contatto contaminante con il pubblico» ha fatto ben presto esperienza e tesoro: e i suoi quattrocento romanzi stanno lì, sfrontatamente, a testimoniarlo. Quattrocento romanzi: mai come per Simenon le cifre hanno avuto tanta importanza. Proviamo a fare un computo veloce: quattrocento romanzi, si diceva, scritti in quarant'anni circa di attività letteraria; forse mille racconti; migliaia di pezzi, vergati per giornali e riviste; sedici diversi pseudonimi, con cui ha firmato le sue opere; meno di mille parole utilizzate, per raccontare le sue storie; un capitolo scritto in poco più di tre ore; un romanzo ultimato di solito in undici giorni (a questo proposito, si narra di una telefonata di Hitchcock allo scrittore belga: «Monsieur Simenon è impegnato nella stesura di un romanzo», dice la segretaria. Essendo nota al grande regista la prolifica velocità di scrittura di Simenon, con una battuta folgorante Hitchcock risponde: «Okay, attendo in linea»); migliaia di donne possedute; almeno dieci estimatori di tutto rispetto: Walter Benjamin («Leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»), André Gide («Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»), Jean Cassou («C'è più poesia nelle straordinarie opere jazz di Kurt Weill o negli straordinari romanzi di Georges Simenon che nella maggior parte dei libri che pretendono di essere libri di poesia perché sono scritti andando a capo a ogni riga»), Ferdinand Cèline («Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon di Pitard , per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni»), Francois Mauriac («La sua arte è di una bellezza disarmante»), Ernest Hemingway («Se siete bloccati dalla pioggia mentre siete accampati nel cuore dell'Africa, non c'è niente di meglio che Simenon»); Jean Luc Godard («In lui si realizza la felice unione tra Dostoevskij e Balzac»); Alberto Savinio, a suo modo («Maigret è un borghese grasso e bonario, una specie di papà senza figli, un moralista che fuma tabacco popolare, porta scarpe con l'elastico, si sente a disagio negli ambienti di lusso, si porta dietro un paracqua, odia il cosmopolitismo, compie il suo lavoro di ricerca più per dovere di funzionario che per sete di scopritore, e che se affretta la soluzione dell'inchiesta lo fa soprattutto perché la cucina degli alberghi non gli conviene affatto e smania di ritornare ai piatti casalinghi che gli prepara la moglie»); Leonardo Sciascia («…E così procede Simenon, anche nei romanzi in cui non c'è Maigret e che di poliziesco hanno soltanto la tecnica. Quella tecnica che non permette al lettore di lasciare il libro a metà, di non chiuderlo se non dopo avere letto l'ultima riga»); Alberto Arbasino («Ora, è chiaro che non viene fuori niente di quello che semmai importerebbe sapere sul suo conto: perché naturalmente i veri enigmi di Simenon non saranno certo quelli polizieschi nei suoi romanzi, ma certi aspetti del carattere e certe scelte nell'esistenza…»); e infine, un detrattore di lusso: Jean Paul Sartre. Ma già siamo nella leggenda. E noi invece dalla leggenda vogliamo subito uscire, per entrare nel mondo vero di Simenon: un mondo fatto di partite a carte o a biliardo, di birre, di pipe accuratamente caricate: in una parola, di abitudini consolidate, di riti quotidiani. Un mondo reale, che sotto gli occhi del lettore prende magicamente corpo, con protocollare, gogoliana precisione, riprodotto con la scrupolosità di un contabile. Un esasperato iperrealismo sostanzia infatti le pagine dei romanzi di Simenon, anche se la sua scrittura, partendo da elementi concreti, effettivi, spesso si fa onirica, trasognata («C'è dello spiritualismo alla base del mio materialismo» disse una volta Simenon ad Alberto Arbasino: vedi Parigi, o cara ). Come accade nei romanzi L'uomo che guadava passare i treni , Il fidanzamento del signor Hire , L'uomo di Londra e I fantasmi del cappellaio . Quattro noir che sono quattro capolavori, forse il meglio di Simenon: anche se resterebbero fuori libri come Le finestre di fronte , Il borgomastro di Furnes , Lettera al mio giudice , tanto per fare qualche titolo. I quattro romanzi in questione hanno in comune l'oggetto del racconto, ossia la vita vera, come la intendeva Virginia Woolf: «La vita non è una serie di lampioncini disposti in ordine simmetrico; la vita è un alone luminoso, un involucro semitrasparente che ci racchiude dall'alba della coscienza fino alla fine. Non è forse compito del romanziere esprimere questo spirito mutevole, misterioso e indefinito, per quanto possa mostrarsi complesso e esuberante, con la miscela il più limitata possibile di elementi esterni ed estranei?». La miscela il più limitata possibile di elementi esterni ed estranei in Simenon è, innanzitutto, la lingua scarnificata fino all'ossessione; una lingua tridimensionale, che fa perno sulla “parola-materia”, per dirla con l'autore; ma la miscela è soprattutto rappresentata dalla somma dei gesti messi in atto dai personaggi. Gesti ieratici, che si ripetono meccanicamente, quelli compiuti «alla stessa ora, nello stesso luogo», come si legge ne L'uomo di Londra , e che sembrano dar corpo a una sorta di rito tribale, a una cerimonia religiosa, a una vera e propria liturgia. I gesti dell'uomo nudo, come diceva lo stesso Simenon: «L'uomo che si sveglia la mattina e si guarda allo specchio, mentre si fa la barba, con la bocca impastata»; l'opposto rispetto a quello “vestito” dei romanzi di Balzac, scrittore tirato in ballo quasi ogni qual volta si parli dell'inventore di Maigret. Anche se quest'ultimo, a furia di spiare i suoi personaggi nella camera da letto, in cucina, di sorvegliarli nelle pause del lavoro, di pedinarli nei bistrot , nei bordelli, di braccarli sino all'inverosimile, in certi casi sino allo sfinimento, si è imposto come il vero anti-Balzac. Certo, l'autore ha ogni volta corso il rischio di cedere alla ripetitività, di lasciarsi sopraffare dal cliché , il vero demone dell'arte tout court , come ha ben spiegato Ioseph Brodvskij ( Il profilo di Clio ). Ma Simenon è riuscito a fare dello stereotipo, del luogo comune, della convenzione i punti di forza della sua ipnotica narrazione. Ha più volte ammesso l'autore che alla base dei suoi romanzi ci stava la voglia di «raccontare una storia, innanzitutto, semplicemente, con l'applicazione dell'ebanista davanti al banco di lavoro», come «il falegname che rifà sempre la stessa sedia». Da qui, anche, la metafora del romanzo scolpito in un pezzo di legno, o nella pietra, con la solita, ripetitiva meticolosità. Ora, va detto che tutto questo è stato possibile a Simenon grazie al suo lungo, prezioso apprendistato, trascorso a scrivere romanzi di genere per tutti i palati. Apprendistato che di certo si può leggere in esergo ai quattro romanzi in questione, che potremmo definire noir , o romanzi “duri”, come da qualche tempo preferiscono alcuni critici francesi: romanzi che prendono l'abbrivio da una condizione di normalità, da un'apparente calma piatta che però, a un certo momento, si incrina, per via di un agente provocatore che mette seriamente il bastone tra le ruote: nell' Uomo che guardava passare i treni , il fallimento di un'azienda; nel Fidanzamento del signor Hire , l'amore, a tutta prima inammissibile; nell' Uomo di Londra , una valigetta che cade in acqua e un uomo misterioso che muore; ne I fantasmi del cappellaio , la malattia della moglie del protagonista. Kees Popinga, al centro del primo romanzo, mortificato da un'esistenza sorda e grigia, ai limiti dell'inesistenza, sull'onda lunga delle speculazioni sbagliate del suo datore di lavoro, decide di abbandonare la moglie, i due figli, la sua cittadina, per iniziare una nuova vita: in lui si sommano, splendidamente, Mattia Pascal, Vitangelo Moscarda e il protagonista della novella pirandelliana intitolata Il treno ha fischiato . Dal canto suo, il signor Hire, vero e proprio capro espiatorio, l'uomo di cui sospettare in ogni caso, il mostro da consegnare alla polizia per la sicurezza di grandi e piccoli, sbatte il naso contro il muro dell'amore, e predispone tutto per la fuga con la presunta innamorata. Louis Malon, protagonista del romanzo L'uomo di Londra , ferroviere addetto agli scambi, dalla sua cabina di vetro sospesa fra le nebbie recupera una valigetta caduta in acqua; da qui, tutta una serie di eventi che vertiginosamente precipitano, portandosi appresso la sua stessa vita. Il signor Labbé, il cappellaio dell'omonimo romanzo, fa fuori la moglie, per mettere fine alle sue sofferenze: cosa che lo costringe a togliere di mezzo sei anziane signore, le cui abitudini gli avrebbero dato seriamente filo da torcere. Si tratta, a ben vedere, di quattro libri che si intersecano di continuo, che quasi si sovrappongono: le vicende in essi narrate, i personaggi evocati, sembrano a un certo punto fondersi in forza di un'unica catena di reazioni chimiche imprevedibili. Kees Popinga e il signor Hire, il cui cognome per estero è Hirovitch, agli occhi delle donne che frequentano, sono entrambi strani, inquietanti: tutti e due vanno a letto con le prostitute di turno, accontentandosi della loro presenza, senza nemmeno sfiorarle. E anche il signor Labbé, quando può, va a comprare l'amore, a modo suo. Il padre del signor Hire, di origini polacco-ebraiche, di mestiere faceva il sarto: un sarto che rigirava vecchi vestiti; mentre la madre di Hire era di origini armene. Il sarto Kachoudas, dirimpettaio del cappellaio Labbé, pure lui è di origini armene, e di solito rigira vestiti consunti. In tutti e quattro i romanzi, si fa riferimento all'atmosfera crepuscolare, da domenica pomeriggio, e c'è sempre uno specchio, davanti al quale si soffermano i quattro protagonisti: forse per avere una conferma della loro esistenza in vita, per scorgere un particolare che possa accertare qualcosa, oppure, come spesso accade, per prendere atto di un cambiamento capitale, di una inattesa e però inevitabile metamorfosi. Nel Fidanzamento del signor Hire , ne I fantasmi del cappellaio e nell' Uomo di Londra , poi, ci sono personaggi che si spiano, dirimpettai voyeur che ficcano il naso negli affari altrui. Ogni sera Hire, ad esempio, si piazza davanti alla sua finestra, per osservare la domestica nella casa di fronte che si toglie i vestiti e si mette a letto, per fissare ogni dettaglio di quel corpo, della sua «polpa ricca, piena di linfa», delle «natiche che sussultano in modo erotico». Come scrive Simenon, il signor Hire può «fissarti molto a lungo, così, senza curiosità e senza tradire alcun sentimento, come su fissa un muro o il cielo», o come si osservano dei pesci «gravi e silenziosi in un acquario», come si legge nel Borgomastro di Furnes . Nei Fantasmi del cappellaio , «Il sarto sbircia di frequente», scrive l'autore: del resto «la distanza era tanto breve e il fondo della strada tanto stretto che si aveva l'impressione di vivere nella stessa casa». Dal canto suo, il cappellaio intravede dalla finestra l'interno della casa-laboratorio del sarto armeno Katchoudas, con le povere cose di una famiglia numerosa e soprattutto bisognosa. I due sguardi, quello del sarto e quello del cappellaio, rappresentano due punti di vista apparentemente opposti, in realtà complementari, che rasentano il favoreggiamento, quasi la connivenza. Come i due sguardi che si fronteggiano nell' Uomo di Londra : quello di Louis Maloin, sgranato nel buio, in grado di mettere a fuoco con nitidezza visionaria minimi dettagli, particolari impercettibili; e quello del misterioso uomo di Londra, che con altrettanta precisione fissa ogni cosa, scruta maniacalmente. I due si cercano, si sorvegliano, si spiano e insieme si schivano, e nel frattempo la loro sommersa alleanza si fa sempre più torturante e ambigua. Aspetto, questo, che non può non far venire in mente il romanzo di Simenon intitolato Le finestre di fronte , in cui Adil bey, console turco, spia le spie che lo spiano: «Mi vedono», dice a un certo momento; «Non possono non vedermi». A questo punto, viene fatto di pensare che la vera arma di Simenon, il segreto riposto della sua arte e del suo successo, il mistero del suo essere scrittore siano proprio la capacità e la sfrontatezza di spiare la vita altrui, di violare ogni privacy , per tallonare l'uomo nudo, per soddisfare il gusto di scoprire gli altri al naturale. Simenon assomiglia per certi versi al giovane protagonista del romanzo settecentesco Il diavolo zoppo , di Lesage, il quale si trova nelle condizioni di spiare quello che avviene in ogni stanza di ogni casa di Madrid, in seguito a una magia demoniaca per la quale tutti i tetti sono stati scoperchiati. Si sa che, per assaporare l'emozione di vedere e non essere visti, la condizione privilegiata è di trasformarsi in spie: è quello che fa Simenon, ed è anche quello che fanno i suoi personaggi. E di solito c'è tanta inclinazione a spiare, quanta insofferenza a essere spiati. Niente può inquietare qualcuno di più che un occhio nascosto. Eppure, alle fantasie erotiche non è estraneo il desiderio di essere visti da altri: questo rappresenta l'unico caso limite in cui il piacere di chi spia converge con quello di chi viene spiato: pensiamo per un attimo alla domestica dirimpettaia del signor Hire. Ma ci sono ancora altre coincidenze: il sarto dei Fantasmi del cappellaio , per poter uscire di casa nel tardo pomeriggio, deve inventare una scusa: cosa che fa anche il protagonista dell' Uomo che guardava passare i treni , ogni qual volta si reca al circolo per la partita a scacchi. In tutti e quattro i romanzi, poi, si registra la presenza della stufa: cosa di poco conto, si direbbe, aspetto del tutto marginale, e invece elemento di primaria importanza, per poter ricreare nei romanzi la giusta atmosfera: una stufa che col suo tepore, col suo respiro si può dire che dia il ritmo alla vita di ogni casa. Basti leggere I fantasmi del cappellaio : ci troviamo in un piccolo porto della Francia, dove la pioggia cade senza tregua e la gente è costretta a far asciugare i cappotti, gli indumenti, i cappelli vicino alle stufe, ogni volta rientri in casa. Ogni cosa è immersa nel vapore di una perenne umidità, calda, cupa, come quella che regna nel bar frequentato da entrambi i personaggi: vapore che viene fuori dagli abiti inzuppati degli avventori. E anche nell' Uomo che guardava passare i treni non mancano le stufe: nella casa di Popinga, infatti, ce n'è una «importante, la migliore nel suo genere, in piastrelle di ceramica verde con pesanti decorazioni in nichel»; e una stufa c'è pure nel bar da lui frequentato, in cui si respira «la vita degli altri allo stesso modo in cui si sentono aleggiare nell'aria gli effluvi di una stufa». Per non parlare dell' Uomo di Londra : per tutta la durata del romanzo, c'è una stufa di ghisa incandescente a riscaldare gli ambienti, a confortare quasi, nei momenti di noia o di tristezza. I rimandi non riguardano però solo i quattro romanzi presi in considerazione: per averne conferma, basta rileggere con attenzione I fantasmi del cappellaio : «Non aveva spento [il sarto, n.d.a. ] la luce nel laboratorio, poiché la nebbia non si era dipanata ancora e, quando il frastuono del mercato si era attenuato, si era udita a intervalli la sirena del porto. Sembrava, nell'aria, il muggito di una mucca mostruosa, e c'era della gente che, pur abitando in città da molto tempo, ne restava ancora impressionata». Viene subito alla mente l'atmosfera magistralmente descritta nel romanzo intitolato Maigret e il porto delle nebbie : «…E Maigret, sprofonda in una nebbia tanto fitta, da non vedere dove mette i piedi. Riesce a trovare il cancello. Sente che cammina sull'erba, poi sui ciottoli della strada. Nello stesso tempo gli giunge all'orecchio un clamore lontano che, per ora, non riesce a identificare. Assomiglia al muggito di una mucca, ma ha un tono più desolato, più tragico. “Imbecille!” brontola poi tra i denti. “E' certamente la sirena per la nebbia”. Si orizzonta a stento…». E come non pensare, a questo punto, a L'uomo di Londra : «Se n'erano beccata, di nebbia, negli ultimi quattro giorni! Una nebbia così fitta che per strada la gente non faceva che urtarsi»; una nebbia che, al porto, «comincia a sfiorare l'acqua e a sollevarsi lentamente, imbiancata dalla luna»; una nebbia che avvolge ogni cosa e «in fondo al molo la sirena non cessava di gemere». E infine i treni, nell' Uomo di Londra come nell' Uomo che guardava passare i treni : col loro fascino sinistro, pirandelliano viene da dire, col mistero dei passeggeri che si portano appresso, con la voglia di libertà che mettono addosso a chi li guarda. Al centro di tutti e quattro i romanzi, poi, il problema della verità, dell'identità, di una dignità nuova, del destino che ogni uomo si porta dietro, come una palla al piede; un destino che però, a un certo momento, non può più essere controllato. Come accade a Kees Popinga, al signor Hire, al cappellaio Labbé e a Louis Maloin: a un certo momento, il caso innesca un meccanismo perverso, che scardina le loro certezze, obliterando evidenze e convinzioni. È il caso a mettere in moto la discesa agli inferi dei personaggi di Simenon: da qui la dimensione claustrofobica che a un tratto assumono i suoi romanzi, mentre i protagonisti delle sue storie sembrano sempre più assomigliare a degli insetti costretti a contemplare la ragnatela che pian piano li imprigiona. Diventano degli automi, come scrive lo stesso Simenon nel Fidanzamento del signor Hire , quasi dei “manichini metafisici”, per dirla con Goffredo Parise che recensisce magistralmente Le finestre di fronte ; degli inquietanti correlativi oggettivi di un male di vivere che è quello di ognuno di noi. Un male di vivere declinato in un unico grande noir , meglio in una grandiosa e però intima tragedia, e non commedia umana («La mia concezione attuale del romanzo è quasi una trasposizione delle regole della tragedia nella forma romanzesca. Credo che il romanzo sia la tragedia della nostra epoca»), all'interno della quale ogni romanzo rappresenta soltanto uno dei tanti capitoli di una maestosa, autoreferenziale, straziante epopea del quotidiano. © Salvatore Ferlita |