SICILIA DELL'ORRORE
di Salvatore Ferlita
Non aveva tutti i torti Italo Calvino, quando definiva “un genere minore” il racconto fantastico nella letteratura italiana dell'Ottocento. Lo considerava a tal punto marginale, da allestire un'antologia gotica ( Racconti fantastici dell'Ottocento ) inserendo soltanto testi di autori stranieri. A fronte, però, di questa vistosa e significativa lacuna, l'autore di Palomar riconosceva alla Penisola una sorta di primato geografico riguardo alla rappresentazione del perturbante: “Nella tradizione del romanzo gotico, delle storie di fantasmi, del soprannaturale tenebroso, l'Italia è sempre stata uno scenario d'elezione”. Rappresentata come terra di passioni, crudeltà, misteri, luogo privilegiato di un esotismo nero, dell'orrore. Bastino in questo senso i nomi di Hoffmann, Hawthorne e James per averne conferma. E nella mappa geografica del gotico italiano, non mancano certo le regioni del Sud: la Campania (è Napoli il teatro delle vicende narrate ne “L'italiano o Il confessionale dei penitenti neri” di Ann Radcliffe, pubblicato nel 1797) e la Sicilia. Che , a dispetto delle sue valli assolate, del luccichio accecante del mare, offre scenari perfetti per accadimenti foschi ed enigmi angoscianti, soprattutto nelle carte degli scrittori stranieri, che la osservano da una distanza tale da renderla sinistramente esotica. Fondale tenebroso, o quanto meno meta obbligata di pellegrinaggi avventurosi, di una sorta di Grand Tour della paura. Come accade nel romanzo manifesto della letteratura gotica, ossia “Il castello di Otranto” di Horace Walpole (1764), da lui spacciato in un primo momento come una traduzione dall'italiano: “Racconto del soprannaturale che – sono parole di Lovecraft, uno dei maggiori narratori fantastici del Novecento – pur complessivamente mediocre e poco convincente, era destinato a esercitare un'influenza pressoché ineguagliata sulla letteratura del mistero”. Nell'opera di Walpole, castelli gotici (come quello di Manfredo), sotterranei labirintici, che sembrano disegnati da Piranesi, spettri, agnizioni, assassini, epifanie, profezie, danno forma a una miscela romanzesca a cui attingeranno in molti, successivamente. E proprio dalle pagine che faranno da viatico alla letteratura europea dell'orrore, a un certo punto si affaccia la Sicilia. Dove era sbarcato alla ricerca del padre Theodore, uno dei protagonisti della storia, legittimo erede alla principalità di Otranto. E dove, prima di lui, aveva fatto tappa Alfonso il Buono, che lì si innamora di una giovane donna che da lui avrà una bambina, futura madre di Theodore. E a due passi dall'Isola si svolge il viaggio intrapreso alla ricerca di un cadavere insepolto, nel romanzo di Wilkie Collins “La follia dei Monkton” (1856, stampato in Italia da Sellerio nel 2001), e siciliano è il brigantino noleggiato per trasportare la salma in Inghilterra. Brigantino che rischia, a un certo punto, di andare a fondo, a detta della ciurma, per via della presenza del cadavere a bordo. Cosa che quasi costringe i marinai e il capitano (superstiziosi come tutti i buoni siciliani) ad abbandonare l'imbarcazione. Da tappa laterale, la Sicilia però era già stata eletta a palcoscenico del soprannaturale e dell'orrore, da una scrittrice a suo tempo famosissima, Ann Radcliffe, cui si deve “Romanzo siciliano” (1790). Per avere idea della popolarità dell'autrice, va detto che nel romanzo di Jane Austen “L'abbazia di Northanger”, la scrittrice fa di uno dei capolavori della Radcliffe, “I misteri di Udolpho”, la lettura preferita di Catherine Morland, la protagonista della storia narrata. Perché, viene da chiedersi, Ann Radcliffe decide di ambientare in Sicilia il suo secondo romanzo? Di situare in una terra da lei mai visitata le vicende spettrali che danno forma a “Romanzo siciliano”? Questa la possibile risposta: l'Isola era allora una meta disagevole da raggiungere, anche per i più spericolati viaggiatori inglesi, che di solito facevano di Napoli l'ultima stazione del Grand Tour (almeno sino alla fine del Settecento). Guardata, dunque, con maggiore curiosità e soprattutto da una distanza difficilmente colmabile, la Sicilia sprigionava, agli occhi della Radcliffe e non solo, il suo fascino sinistro, spettrale: per via anche di un passato denso di delitti e misteri. Al centro del romanzo della scrittrice inglese, ci stanno Giulia ed Emilia, giovani dame del Cinquecento, che vivono nel castello di Mazzini (toponimo inesistente), fosco maniero di una Sicilia immersa in un paesaggio dai contorni geografici a dir poco inverosimili. Il loro genitore, conte di Mazzini, se la spassa a Napoli, accanto alla seconda moglie, trascurando i doveri di padre. A richiamarlo nell'isola, la morte del maggiordomo, il quale non riesce, prima di morire, a svelare il mistero relativo ai sotterranei del castello (qui la Radcliffe rende omaggio al suo maestro, Walpole). Ricchi di passaggi segreti, corridoi bui, trappole, botole nascoste (“l'idea di precipitare in un abisso profondo, e di cadere in potere degli spiriti infernali lontano dalla luce del giorno e, per così dire nelle viscere della terra…”) e rovine cadenti, e movimentati da eventi soprannaturali e resi ancor più sinistri da rumori inquietanti o inspiegabili e da avverse condizioni atmosferiche: ululati di cani e lupi, versi di gufi o civette, sordi e prolungati gemiti; strisciar di catene, passi, porte che sbattono. E poi tutta la fenomenologia del cattivo tempo: pioggia, nebbia, vento, lampi: “Il cielo era coperto di fosche nubi e la luna non si faceva vedere, la notte era quindi scurissima”. Il conte di Mazzini rimette piede in Sicilia, e si scatena una santa barbara di disavventure che sconvolgono la vita delle due eroine, mettendone sotto sopra le viscere. Ma a fare da fondale al romanzo della Radcliffe, come si è detto, è una Sicilia irriconoscibile, sottoposta a una vera e propria distorsione geografica. Come si può evincere da questo passo farneticante: “Nelle belle sere d'estate la piccola compagnia cenava in un casino su un'altura fra i boschi che circondavano il castello. Di là l'occhio si perdeva su un'immensa estensione di terra e di mare, che scopriva nel tempo stesso, lo stretto di Messina, e la costa di Calabria di fronte, ed un gran numero di scene silvestri e pittoresche… Il monte Etna, coronato di perpetuo fumo, fungeva da sublime sfondo in quel magnifico quadro. Si distingueva anche la città di Palermo…”. Quel magnifico e improbabile quadro la dice sulla scarsa frequentazione, da parte della Radcliffe, almeno delle carte geografiche. Ci avrebbe pensato niente meno che Giovanni Verga, il padre del verismo, il banditore dell'opera letteraria come “documento” e “analisi”, a ridare alla Sicilia una configurazione reale, pur lasciandola immersa nelle brume della paura e del mistero. Con la novella “Le storie del castello di Trezza” (1877), costruita su un'antica leggenda siciliana, ambientata nel piccolo paese di Trezza appunto. Con tanto di maniero fosco, amori impossibili, suicidi e apparizioni di fantasmi. Da una complessa e perfetta geometria del racconto, viene fuori alla fine una storia gotica esemplare, scritta da un insospettabile. Aveva proprio ragione Calvino: per scrivere racconti fantastici non occorre affatto crederci. © Salvatore Ferlita |