RELAZIONE DELLA COMMISSIONE PER L'ACCERTAMENTO DEI DANNI
Signori, |
Nella prima comprese le relazioni relative ai danni diversi causati in città dal popolo armato, dalle bombe e dalle palle di cannone ed il danno denunciato in questa relazione ascende a lire 75.717,97. Nella seconda categoria furono incluse le relazioni relative al danni causati nei giorni 4, 5, 6 e 7 aprile dalle RR. Truppe nel quartiere di S. Teodoro e nelle colline di S. Benigno, degli Angeli, di Belvedere e di Promontorio. Stando alle relazioni dei danneggiati, che determinarono il montare del patito danno materiale, questo ascenderebbe a lire 645.555,90; vi sono poi sette relazioni nelle quali il danno non è valutato. Ma, signori, la cifra dei danni materiali è un nulla se noi badiamo al modo col quale furono inferti, e pensiamo al danno morale gravissimo che ne emerse; onde gli odii municipali risuscitati, le antipatie fra cittadini e militari, la discordia a vece dell'unione, che sola può trarci dalla misera condizione in cui precipitammo dopo tante speranze. Egli è quindi che con vero dolore la Commissione si accinge a darvi un sunto di queste relazioni, ove miserandi casi sono narrati, imperocchè ben vede che, nel rimescolare le passate cose, non sta il farmaco dei nostri mali intestini. Nel giorno 4 aprile, appena scalate le mura della Lanterna ed occupata da quel lato la parte della città, i soldati d'ogni arma, carabinieri e bassi uffiziali compresi, a drappelli si disseminarono in tutto il quartiere di S. Teodoro e nelle suddette colline. Alcuni si stettero battendo contro i pochi armati che difendevano le barricate ed altre posizioni, e gli altri, quasi orde di barbari o di briganti, si presentarono armata mano alle abitazioni dei pacifici cittadini. Se le porte di casa trovavano chiuse, perché gli abitanti ne fossero fuori, ovvero celati si stessero nel recesso più recondito, bussando e ribussando le facevano tosto aprire o meglio a viva forza le atterravano, talvolta scaricati prima i fucili contro le finestre ed ove ciò non bastasse queste scalarono aprendosi per le stesse un facile varco non ostante fossero murate. Qualunque ritardo od ostacolo anche morale frapposto dagli abitanti al loro libero accesso nelle case, punivano con fucilate. A una donna che sentendo bussare, s'era affacciata alla finestra, le fu sparato contro il fucile, solo perché li avvertiva che i padroni di casa si trovavano in città, fortunatamente non fu colpita, altrettanto fecero contro un ragazzo d'anni undici affacciatosi alla finestra per chiamare il padre; il giovinetto vi lasciò la vita. A un galantuomo, che al sentire bussare alla porta e gridare fortemente "aprite", frettoloso accorreva al comando, furono tirate due fucilate, una la scansò, l'altra colpì la serratura della porta mentre era in procinto di aprirla, si staccò un chiodo e portò via al poveretto un occhio. Entrati nelle case con aria minacciosa, alcuni allegavano il pretesto di voler perquisire armi; altri che volevano mangiare, la maggior parte poi calata ogni maschera furibondi gridavano "Denari, denari o la vita" ed appuntate carabine, pistole, baionette, sciabole e pugnali al petto od alle gole dei tremanti ed inermi cittadini, se non ferivano od uccidevano, minacciavano morte immediata forzando anche i pazienti ad inginocchiarsi e recitare l'atto di contrizione. Con tale apparato, spaventate le famiglie,si cacciarono addosso alle persone, ne lacerarono le vesti, ne stracciavano o portavano via le saccoccie e le tasche, strappavano dal collo le cravatte, le catenelle d'oro e gli orologi, dalle camicie i bottoni di qualche valore, dagli orecchi i pendenti, dalle dita gli anelli; e se per l'ingrossato dito l'anello non poteva trarsi, si poneva il dito e l'anello tra i denti e rompendo caninamente questo, quello ferivasi. A taluno tolsero persino le scarpe che calzava e vi fu chi dovette cavarsi di dosso la stessa camicia. Spogliate le persone di quanto avevano indosso, se non aprivano i ripostigli del denaro e delle cose preziose, ripetevano le minaccie alla vita o la tragica scena delle carabine appuntate e degli atti di contrizione: ovvero invadevano, percorrevano la casa mettendo tutto a soqquadro, frugando in ogni angolo, in ogni ripostiglio, sconquassando i mobili, rubando ogni cosa di facile esportazione, rompendo, lacerando, sperdendo quanto non potevano portar via. E fatto il bottino, i ladroni furono visti in pubblica strada battersi fra loro per la divisione della preda ed a queste scene di orrore i medesimi cittadini, dovettero assistere non una sola volta, ma ripetutamente. Ogni nuovo manipolo di soldati che si avanzava, era una nuova perquisizione, erano nuove minacce, violenze, percosse; crescenti sempre in ragione diretta della deficienza del bottino che, come ognuno vede, doveva mancare agli ultimi venuti. E questi aggressori non si ristettero dall'inveire contro le persone e le cose alla vista di famiglie intere chiedenti carità, compassione; non si ristettero all'amichevole accoglienza, all'ospitalità che loro veniva prestata. Anzi allora alcuni ostentarono maggiore ferocia, e gli insulti accoppiavano alle minaccie, altri in realtà vie più inferocendo commisero atti nefandi. Dicevano: I Genovesi essere tutti "Balilla", non meritare compassione, aver determinato di ucciderli tutti. Questi insulti e minaccie ripetevano a chi si affaccendava di preparar loro il pranzo, ovvero li aveva già saziati. Un macellaio che prestava nel modo il più caritatevole la sua assistenza a quattro soldati feriti, fu replicatamente minacciato, e si volea a qualunque costo ammazzare; ora, perché non svelava l'abitazione dei ricchi, ora perché temevano fosse lombardo. Un povero facchino a cui avevano ucciso un figlio d'anni undici, nell'angoscia di tanto dolore fu obbligato giorno e notte a preparare minestre alle diverse squadre di soldati che si succedevano. Per tutta ricompensa lo derubarono e scaricarono contro la porta di casa settecolpi di fucile. Tre colpi di fucile furono sparati contro chi con la fuga metteva in salvo la vita, fu sparato contro un cittadino dopo che gli fu impedito di penetrare nella propria casa; fu sparato contro un povero padre di famiglia, perché essendo già stato derubato da altra banda di soldati, i nuovi venuti trovarono campo raso, e non avendolo colpito l'obbligarono a guidarli ove potessero rubare; fu sparato contro una serva, che trovarono rinchiusa in una casa che invasero rompendone le porte, l'infelice ferita fu in seguito trasportata all'ospitale militare dal suo padrone; fu sparato contro un contadino e fu mortalmente ferito perché osò raccomandarsi non rovinassero la poca verdura che non potevano consumare; fu sparato contro chi ricusò prestarsi a condurli in una casa ove far potessero pingue bottino; il misero vi lasciò la vita; fu sparato contro un giovine che, attirato dal rumore si era affacciato alla finestra, morì sul colpo. Né qui han fine le commesse atrocità. Il figlio di un povero facchino, già soldato nella brigata Guardie, giacevasi a letto per ferita riportata alla battaglia di S. Lucia. Sperò d'essere rispettato coprendosi colla sua divisa, ma invano, fu minacciato a morte e poco mancò non compiessero l'atto eroico di uccidere nel letto un loro compagno d'armi. Alle minacce di questi ladroni, allo spavento della madre, una bambina di due anni piangeva, gridava serrata al collo materno, fu strappata dalle braccia della madre e cacciata a terra. In mezzo a tante crudeltà, a tante infamie, è facile presentire che la sola fuga poté preservare la vergine e la pudica moglie dalla brutalità di gente oscena. Ma non tutte le donne ebbero il coraggio d'una madre e di due figlie che, con una fune si calarono dalla finestra lacerandosi le mani; non tutte ebbero la sorte della fanciulla a tredici anni, che alla sfrenata libidine di quei manigoldi fu sottratta per le cure di un prete e di ufficiale; non tutte infine poterono salvarsi fingendo accettare l'incarico di procurare donna più giovane. Ma ciò che più rifugge, signori, è vedere tentata una madre già depredata e gettata sul letto alla presenza degli innocenti figli e di tutta la famiglia; ed un marito legato ad una tavola, dover assistere all'onta che gli si faceva. Nulla di santo, nulla vi fu di inviolato. Gli arredi sacri del Santuario di N.S. di Belvedere vennero derubati. Erano due calici, una pisside e vani ornamenti preziosi di cui i devoti si erano spogliati ad onore del tempio. Un ufficiale fu complice del sacrilegio, ora ne sconta la pena. Per ben tre volte entrarono armata mano nella casa dei RR. Missionari di Fassolo. La prima volta scalando i muri e rompendo due porte, taglieggiarono quei religiosi di L. 300 che il R. Daneri pagò a chi da una mano ritirava il denaro e con l'altra teneva la pistola montata ed appuntata: la seconda volta sparavano colpi di fucile contro la porta, mentre i Missionari stavano per aprirla; perlustrarono il convento, rubarono e ferirono con un colpo di baionetta nel petto un fratello che erasi per lo spavento chiuso in una stanza; la terza volta nuovamente rubarono, saccheggiarono. Nè meno fortunati furono i Canonici Lateranensi di S. Teodoro, ed il R. Parroco Caprile. Questi religiosi non poterono salvarsi dal saccheggio e dalle minacce, nè in casa privata ove i più eransi rifugiati, nè nella Canonica o Convento, ove alcuni erano rimasti. Ivi l'abate Sauli e il chierico Pitto furono aggrediti armata mano. Il primo ebbe salva la vita perché il chierico asseverò e persuase ch'era quasi demente; il chierico scampò dal pericolo giurando che non era prete. Però vennero entrambi posti in arresto, durante il qual tempo fu dato il sacco a tutte le stanze del Convento; fu rubato un calice, la croce d'oro e l'anello abaziale, una stola, insomma fu rubato tanto per L. 30,186. E più si sarebbe rubato, se non fosse sopraggiunto il cappellano di Reggimento Giorgio Narizzano che, fatto porre in libertà gli arrestati, procurò si salvassero gli altri vasi sacri. La catastrofe non ha qui fine; ebbero a correre altri pericoli e patire pubblica ingiuria dalla stessa ufficialità e dallo stesso generale La Marmora. Il R. Parroco Caprile avendo cercato durante l'armistizio entrare in chiesa, ne fu impedito ed aggredito dagli ufficiali, venne accusato d'aver predicata la crociata e coi termini più indecenti insultato. Il povero prete tentò svignarsela, ma inseguito a tutta furia dai soldati gli fu sparato contro con una fucilata, della cui ferita a stento si ridusse a guarigione. Il generale La Marmora in occasione del funerale del maggiore Celesia; saliti i primi gradini dell'altare maggiore della chiesa, volgendosi ai soldati ed accennando ai Canonici Lateranensi ed al R. Parroco in piviale che avevano accompagnato il convoglio, disse: " Vergogna! Forse questi sono i capi della rivoluzione ". Passiamo a parlare dei prigionieri fatti nell'aggressione della città. Sulla sorte di questi disgraziati la Commissione deve pure narrare scene di orrore. Prigionieri vennero fatti tanto i cittadini armati, che deposero le armi od erano nei forti, quanto i cittadini pacifici che trovarono chiusi nelle loro case, e che avevano derubati. Un attruppamento di persone con divisa della Guardia Nazionale, rompendo le porte di una casa, erasi ivi ricoverato, e salito sul tetto inalberava bandiera bianca, deponendo le armi. Sopraggiunsero in casa i bersaglieri, tosto ne stilettarono uno, e fecero prigionieri gli altri unitamente al conduttore della casa, che a quei sciagurati aveva dato forzato ricovero. Tratti tutti in istrada, il generale La Marmora ordinò l'immediata fucilazione di un altro. Il conduttore della casa, dopo liberato di carcere tornò al suo domicilio e si convinse che altro delitto vi era stato commesso perché trovò tutti insanguinati due materassi di un letto. Un cittadino fu imprigionato mentre inerme e solo se ne andava a casa, fu legato con le mani dietro al dorso; era strettamente legato e quando pregò gli allentassero i lacci, li strinsero ancora più. Tutti i prigionieri furono condotti al forte della Crocetta. Mentre li traevano alla prigione, i soldati in mezzo de' quali transitavano, o li prendevano a calci e pugni o li schiaffeggiavano, o li battevano con il calcio del fucile, o gridavano morte ai "Balilla", od appuntavano al loro petto il fucile ovvero la baionetta alle spalle,causando scalfitture. Nè miglior fortuna toccò a questi infelici durante la prigionia. Ogni specie d'insulto e di mali trattamenti ebbero a patire. Derubati del denaro, se ancor ne avevano, rinchiusi in numero eccessivo in piccole stanze. Per due lunghi giorni ad alcuni non fu somministrato cibo di sorta e quando ne avevano era scarsissinio. Nei primi tre giorni una sola galletta per giorno e due nei successivi . Anche l'acqua fu loro talvolta negata, a chi chiedeva acqua rispondevano: bevete l'orina. E questo lauto trattamento era rallegrato dalle percosse, dalle ferite, dalle continue minacce di fucilazione. Del resto il generale La Marmora, in occasione della resa del forte di Belvedere aveva dato la sua parola d'onore ai fatti prigionieri che che sarebbero stati umanamente trattati, e minacciò di fucilazione chi li avesse molestati . Signori, nel delinearvi il quadro del saccheggio, delle devastazioni e delle crudeltà commesse dalle R.R. Truppe nei giorni 4, 5, 6 e 7 aprile, finora la Commissione attenendosi alle fatte dichiarazioni, accennò ai fatti infami, turpissimi non confacienti alla civiltà e mitezza di costumi del nostro suolo. Ma dunque direte voi: i soldati che in quei giorni si sbandarono e si introdussero in Città furono tutti ladri, assassini, inumani ? No, signori, fra i tanti tristi furonvi i buoni, che non contaminarono l'onore delle armi Italiane. Stando alle relazioni, delle quali si dà il sunto, fra tutti primeggia Alessio Pasini, già dal Municipio pubblicamente lodato e distinto con Daga d'onore. La soldatesca introdottasi per la porta e per le finestre nella casa Curotto, ove eransi rifuggiate 18 donne e cinque uomini, questo caporale dei bersaglieri, più volte, esponendo la propria vita, frenò il furore de' suoi commilitoni, e la loro rapacità e così salvò quattro famiglie. Per ben due volte, gridando che in nome del generale La Marmora non si doveva far male ad alcuno, oppose il suo petto a carabine e pistole puntate a minaccia di fucilazione contro un distinto Magistrato genovese (Senatore Daneri) ed un servo, già fatti inginocchiare. Riuscito a far sgombrare da quella casa il primo drappello di soldati, vi si pose a guardia e vantando l'ordine di non lasciare entrare alcuno, la liberò dalle scorrerie di altre bande armate, che successivamente si presentarono. Fatto avvertito che alla prima invasione un signore era riescito a salvarsi e nascondersi in cantina, si portò nel nascondiglio, l'abbracciò, lo rincorò, lo aiutò a meglio celarsi, e vistogli pendere la catena dell'orologio, lo consigliò a nasconderla. Nella stessa guisa difese e protesse in altra casa la famiglia di certo Pieri. In riconoscenza dei servigi prestati, una giovane volle regalarlo di una sua catena d'oro, la rifiutò; il Magistrato che aveva salvato dalla minaccia di fucilazione volle donargli una discreta somma, la ricusò; fatto interpellare dal Municipio, se in attestato delle generose sue azioni desiderava denaro, ricusò denaro. Un marito alla vista della moglie in procinto di essere trafitta al ventre da un colpo di baionetta, si frappose, fece resistenza e salvolla. I soldati si rivolsero allora contro il marito, e volevano fucilano adogni costo. Presenziavano questa scena due carabinieri ed un sergente. I carabinieri lasciarono fare, ed in luogo d'impedire il minacciato assassinio, con due tende di damasco rosso sulle spalle si pavoneggiavano, dicendo di essere ornai cardinali. Il sergente solo s'interpose fra la vittima e gli aggressori ed ottenne una tregua. Nel frattempo alle strida della disperata famiglia accorse un Maggiore, che mosso a compassione pose in salvo quell'infelice. Si ignorano i nomi del Maggiore e del sergente. La famiglia di un povero falegname era già stata derubata dai soldati del poco denaro che possedeva. Sopraggiunse un drappello di bersaglieri comandato da un caporale, ed istantemente chiese denaro, risposto che più non ne aveva, fu battuto dal caporale con la canna del fucile, e gli altri soldati appuntarono i loro contro la famiglia. Accorsero altri bersaglieri, che erano poco lungi a custodia di un ferito, e sgombrarono la casa dagli assalitori. Un bersagliere salvò e scortò in salvo un cittadino assalito e minacciato da una turba di soldati . Si distinsero pure per atti umanitari il Maggiore Carena Giuseppe, Strucchi ufficiale del XXV Reggim. ed il capitano Marchese, direttore dell'ospitale militare. Signori, il Municipio ha già deliberato di assumere informazioni sopra i danni arrecati nello scopo di rassegnare una rappresentanza all'autorità competente. Impertanto la commissione propone che il Generale Consiglio appoggiato alla fatta inchiesta, ricorra al R. Governo perché accordi la dovuta indennità a chi patì danni nei giorni 4, 5, 6 e 7 aprile pel fatto del saccheggio dato dai soldati. La Commissione è convinta che non si contesterà questa domanda giustissima. Il R. Governo ha sempre protestato che il saccheggio non fu da lui ordinato, che fu il puro fatto di soldati sordi alla voce dell'onore e dell'ubbidienza. Noi accettiamo questa dichiarazione. A termini di legge chiunque, e perciò anche il Governo, è tenuto non solo per il danno che cagiona col proprio fatto, ma ancora per quello che viene arrecato col fatto alle persone, delle quali deve essere garante. Ora il Governo deve essere garante del saccheggio dato dai soldati, ove non sia stato ordinato, perché il saccheggio in questo caso è l'effetto del rilasciamento della militare disciplina, e l'osservanza della più rigorosa disciplina militare è preciso dovere di qualunque governo. Nè si tema che si dica essere la causa prima del saccheggio la rivoluzione di Genova, in quanto senza di questa non avrebbero avuto luogo nè l'aggressione della Città da parte delle RR. Truppe, nè il conseguente saccheggio. Imperocchè se si avesse a rimontare alle cause degli avvenimenti, domanderemo quale sia stata quella della rivoluzione di Genova. Noi che subimmo e non facemmo la rivoluzione, dobbiamo essere convinti che l'ordine delle cose non sarebbe stato mutato, se nei propositi del Governo fosse stata quella fermezza, senza cui vi ha il disordine e l'anarchia, se gli alti suoi funzionari in Genova, privi di civile coraggio, non avessero disertato il loro pacifico posto per assumerne uno ostile, che solo spianò ad essi la via alla sconfitta seguita da vile capitolazione, se infine a capo della Guardia Nazionale il Governo non avesse conservato chi non divideva le convinzioni del Governo. Ecco le vere cause della generosa rivoluzione dell'aprile scorso, le cui tristi conseguenze vuole giustizia non ricadano sopra i pacifici cittadini che non vi presero parte. Faremo senz'altro qui punto poichè il Governo avendo nella lettera del Ministero dell'Interno, 27 maggio scorso, esternato il pensiero di erogare il prezzo che si ricaverà dalla vendita dell'area di Castelletto alla parziale indennizzazione dei saccheggiati, mostrò di volere rifare i danni cagionati. Genova, 14 giugno 1849. EMANUELE AGENO, ReIatore della Commissione |