Leonida Balestreri presentazione al volume I MOTI GENOVESI DEL '49 Se si può essere di discordi pareri circa l'importanza da annettere al moto insurrezionale di Genova del marzo-aprile 1849, si deve invece riconoscere unanimemente che di questo episodio così drammatico della nostra storia risorgimentale non si è sinora operata una ricostruzione sistematica, condotta con criteri di assoluta imparzialità, andando a fondo nella ricerca delle cause, molteplici e complesse, che ebbero a determinarlo e procedendo ad un'analisi completa del significato e delle ripercussioni che essa ebbe al momento, e nei successivi sviluppi delle vicende italiane. Una tale lacuna appare assai significativa, in quanto da essa più ancora che la riconosciuta difficoltà dell'argomento si deve dedurre una certa riluttanza degli studiosi ad affrontarlo. Ciò per una duplice ragione: una - ormai superata - costituita dal fatto che, rappresentando questo episodio della storia genovese una pagina alquanto nera dell'operato della monarchia sabauda, questa, finché ebbe a reggere il Paese, determinò quello che si potrebbe definire un naturale condizionamento degli eventuali interessi in questa direzione da parte dei cultori delle cose patrie: l'altra - tuttora influente - costituita dalle particolarità del materiale esistente in argomento. E' al proposito, infatti, da rilevare che - sia nel caso di relazioni e, ancor più, di libri ed opuscoli esprimenti l'opinione dell'una e dell'altra delle parti che ebbero ad affrontarsi - ci si trova in genere di fronte a prese di posizione passionalmente soggettive e polemicamente sforzate. Ciò può spiegare come -
mancando sinora un'elaborazione critica in argomento (1) - si sia ritenuto,
più di una volta, di realizzare onesta opera di informazione storica
raccogliendo in un unico volume testi e documenti provenienti, gli uni,
dalle autorità sabaude e, gli altri, dall'ambiente degli insorti,
e lasciando al lettore di farsi direttamente una sua propria opinione
sulla base di questa offertagli possibilità di un immediato raffronto
delle tesi in contrasto. Una cosa analoga a quella a suo tempo appunto realizzata dal Comune di Genova si è ora ripromesso di fare l'Editore del presente volume. Ovviamente gli scritti che in queste pagine vengono presentati all'attenta considerazione del pubblico, sono altri, ma altrettanto e forse sotto certi aspetti almeno - ancora più interessanti di quelli dell'Alizeri e del Celesia. Si tratta della riedizione integrale di un volume e di un opuscolo assai rari, di cui neppure le stesse maggiori biblioteche pubbliche risultano sempre in possesso, e della riproduzione delle pagine salienti di un'opera di carattere generale - oggi altrettanto difficile ad essere reperita - dedicata da un testimone di esse alle vicende italiane del 1848-49. Il testo delle tre pubblicazioni in parola viene opportunamente integrato con la presentazione di alcuni documenti, tra i quali, in particolare, l'elenco completo dei danni subiti dalla cittadinanza genovese a seguito dell'operato delle truppe del La Marmora. Costituisce, tutto questo, un materiale documentario di più che notevole importanza, perchè anche la parte di esso che è stata stesa con più o meno dichiarati intendimenti polemici porta date sempre assai vicine a quelle degli avvenimenti cui si fa riferimento. Le pagine riportate nel presente volume, che appaiono stese a maggior distanza di tempo dall'insurrezione genovese, sono infatti quelle dedotte da un volume di Candido Augusto Vecchi, " L'Italia - Storia di due anni (1848-49) ", che risulta stampata a Torino nel 1851, essendo stata peraltro redatta tra il febbraio e il maggio dell'anno precedente. I dati relativi alle vicende genovesi sono presentati in forma pacata e con quel distacco che fa di essi elementi di una storia rivissuta con il massimo sforzo di obbiettività. - Non si può affermarlo con piena certezza, ma è presumibile che in queste pagine sia un poco anche il riflesso diretto del pensiero di uno degli artefici maggiori dell'insurrezione genovese, l'Avezzana cioè, in quanto questi, divenuto nello stesso mese di aprile 1849 ministro della guerra della Repubblica Romana, si trovò ad avere per suo aiutante di campo proprio il Vecchi. Così il volume "Della rivoluzione di Genova nell'aprile 1849, esposta nelle sue vere sorgenti - Memorie e documenti di un testimonio oculare" porta l'indicazione editoriale " Italia 1850 ": la prefazione risulta peraltro di epoca antecedente, essendo datata " Marsiglia, novembre 1849 ". Manca poi ogni indicazione dell'autore, sicché taluno è stato tratto ad indicarla sbrigativamente come opera dell" Anonimo di Marsiglia ". Antonio Manno (2) sembra ritenere tale elaborazione dovuta alla penna di Emanuele Celesia, cosa questa contestata dal Codignola (3), che propende invece ad attribuirla a Costantino Reta. Quest'ultima supposizione resta tuttavia smentita da una lettera dello stesso Reta indirizzata al Celesia, lettera nella quale il valoroso parlamentare si ritiene in dovere di ringraziare il Celesia stesso - che egli suppone autore del volume - per le parole con le quali nelle sue pagine è stata tratteggiata l'opera da lui svolta nelle drammatiche giornate dell'insurrezione (4). Mancano, nonostante questo, elementi concreti per poter indicare come autore del volume il Celesia, né, d'altra parte, sembra logico ritenere che - non essendosi allontanato da Genova dopo il fallimento del moto insurrezionale - egli si azzardasse a sfidare tanto temerariamente gli imperversanti rigori polizieschi redigendo - senza attendere l'opportuna decantazione del tempo - pagine tanto scottanti per la monarchia sabauda. Che se si dovesse avanzare un'altra supposizione circa la vera paternità del libro, questa si potrebbe forse attribuire a Nicolò Accame, e ciò non soltanto perché alla data indicata nella prefazione del libro stesso egli si trovava effettivamente a Marsiglia - in luogo sicuro, cioè - ma anche e soprattutto perché, per quella che era stata la sua veste di segretario del Governo Provvisorio a Genova, era a lui possibile, forse più che a chiunque altro, dare la cronaca più esatta e l'interpretazione più aderente dei drammatici fatti di cui era stato uno dei protagonisti di maggior rilievo. Comunque, anche se la conoscenza della personalità dell'estensore del volume potrebbe costituire un elemento di ulteriore valorizzazione di quanto in esso contenuto, è certo tuttavia che le pagine della rievocazione - vivaci come esse talvolta appaiono, pur senza mai perdere il tono della sincerità, né la nota dell'equilibrio - risultano lo stesso un documento di eccezionale interesse non soltanto dal punto di vista politico, ma anche da quello strettamente umano. Più limitato il valore da attribuire all'altro testo pur esso integralmente riprodotto nelle pagine del volume che qui si introduce, vale a dire il fascicolo che il generale Giacomo De Asarta, comandante la Divisione militare di Genova, ebbe a stendere per giustificare il proprio operato aspramente criticato dal La Marmora. Questo memoriale, apparso sotto il titolo "Relazione degli ultimi fatti di Genova" per i tipi del tipografo torinese Luigi Arnaldi, porta la data del 30 aprile 1849. L'interesse che va connesso a queste brevi pagine di autodifesa del De Asarta è rappresentato essenzialmente dal fatto che il vecchio generale, per quanto cerchi di sostenere, non riesce a dimostrare di essersi impegnato nell'opera di repressione con l'energia che avrebbe invece preteso il Governo di Torino. Anche se da un certo momento - cioè da quando la sua famiglia ebbe ad essere presa in ostaggio da parte degli insorti - egli si trovò drammaticamente condizionato nel suo agire, non per questo la sua linea di condotta si appalesò di molto diversa da quella seguita in precedenza. Egli in sostanza sembra intendesse evitare, finché fosse possibile, di giungere alle conclusioni estreme, adottando una tattica cauta e temporeggiatrice: e, al proposito, non è forse del tutto fuori di luogo ritenere che gli stessi suoi pressanti solleciti al La Marmora perchè accorresse senza indugi ad affiancarsi al presidio della città non avessero altro fine che quello di paralizzare, prima ancora che potessero passare all'azione, i gruppi più aggressivi dell'opposizione antisabauda. Probabilmente è troppo, in questo caso, parlare di due concezioni opposte, ma sta di fatto che il De Asarta, pur mai venendo meno al suo dovere di soldato della monarchia, dimostrò di rendersi ben più esatto conto dell'effettiva realtà della situazione di quanto non facessero i politici e i militari piemontesi. La sua qualità di ligure (egli era infatti nativo di Sampierdarena) gli apriva naturalmente - si può dire - più chiari orizzonti circa i possibili e paventabili sviluppi della situazione. Ma ciò non valse né alla causa italiana, né tanto meno a lui, che - nonostante pienamente assolto dalla commissione d'inchiesta chiamata a pronunciarsi sul suo operato (5) - fu in breve volgere di tempo allontanato dal servizio e collocato a riposo. Il caso del De Asarta è tale, indubbiamente, da dare adito a più di una perplessità. Dal suo svolgersi sembra infatti possibile dedurre che da parte degli ambienti ultraconservatori del Governo di Torino non soltanto non si volesse evitare che a Genova si arrivasse all'estremo punto di rottura, ma addirittura lo si desiderasse, proprio per avere la giustificazione per la più dura delle repressioni. E' significativa al proposito una frase del ministro dell'interno Pinelli, pronunciata - si badi - ben sette mesi prima delle tragiche giornate di Genova: riferendosi all'effervescenza degli ambienti democratici della metropoli ligure, l'autorevole uomo di governo piemontese non esitava ad augurarsi che essa sboccasse in qualche cosa di clamoroso: "Credo -egli affermava infatti - che uno scoppio di questi malumori che covano sia quasi desiderabile"(6). Ed era dello stesso periodo l'invio a Genova, in veste di nuovo governatore, del generate Giacomo Durando, munito -non si sa con quanto rispetto delle norme costituzionali - di un decreto di stato d'assedio in bianco. (7). Risulta da questi elementi - e da altri numerosi che ad essi si potrebbero aggiungere - come in sostanza il Governo di Torino solo cercasse di avere un pretesto per addivenire ad un colpo di forza contro gli ambienti democratici genovesi, nell'illusione di poter così, una volta per sempre, arrestare l'evolversi di una situazione significante il progressivo crollo delle tradizioni e dei privilegi del mondo della conservazione. Per questo - o, almeno, anche per questo - non si tentava il minimo sforzo per cercare di eliminare i molteplici fattori di disagio morale e psicologico della popolazione genovese. Nè si può sostenere che il Governo di Torino, per quanto espressione essenzialmente di una società basata su una statica aristocrazia terriera, mancasse di concreti elementi di giudizio circa la realtà della situazione genovese. Vi sono al proposito, tra l'altro, alcune relazioni degli organi di polizia locali, indirizzate alle autorità centrali, che enucleano con sufficiente precisione alcuni dei motivi essenziali del disagio e delle irrequietezze dell'ambiente della Superba (8). Non altrettanto consapevoli si direbbe siano stati al riguardo i ministri del Governo di Torino e lo stesso re Vittorio Emanuele II, che, l'8 aprile 1849, quando ormai i trentamila uomini del contingente piemontese avevano avuto piena ragione della resistenza degli insorti, così si esprimeva in una lettera inviata al La Marmora (9): Mon cher général, Ben si può ritenere che all'asprezza di siffatte espressioni del sovrano non sia stato estraneo il ricordo vivo ed amaro dei momenti più torbidi del moto da cui fu scossa Genova, allorché il furore incontrollato della piazza conduceva a barbara morte la guardia di polizia Piccone e il maggiore dei carabinieri Ceppi. Ma è altresì vero che, se da queste parole si dovessero trarre le logiche deduzioni, il minimo che si avrebbe a dire è che esse nulla esprimono di quelle che si conclamarono esser le capacità unificatrici delle genti italiane da parte della monarchia sabauda. Ciò che da siffatto documento risulta sembra doversi giudicare, almeno sul terreno morale, come un qualche cosa di molto diverso. Del resto, il prezzo che Genova dovette pagare per rimanere fedele a se stessa e per rinverdire la sua antica tradizione in una visione aperta dei tempi nuovi, fu certo tale da soddisfare quanti, avversando l'impeto generoso del suo popolo, si manifestavano quali realmente essi erano: i nemici della democrazia. Il numero delle vittime dell'insurrezione non è stato mai precisamente determinato, parlandosi - tra morti e feriti - di oltre cinquecento tra i soldati e di più di duecento tra la popolazione. I registri dei decessi di quel periodo redatti dalle parrocchie non danno -salvo eccezioni rarissime - le cause della morte, sicché arduo è rendersi conto di chi sia deceduto nel corso dei combattimenti o per le conseguenze successive di essi. (10) E' certo, comunque, che le vittime furono molte, tragicamente troppe per un urto tra genti dello stesso sangue. Dure - nonostante l'amnistia - furono anche le pronunce dei giudici contro gli esponenti piu qualificati del moto: undici condanne alla pena capitale - tutte fortunatamente in contumacia -, l'arresto di numerosi militari che avevano parteggiato per gli insorti, e la sospensione dal loro incarico di alquanti funzionari e magistrati, variamente compromessi nel corso delle drammatiche giornate del marzo-aprile. Ma, sotto certi aspetti, ancor più tragico, ebbe a risultare il bilancio del bombardamento effettuato sulla città dai cannoni del La Marmora, e del saccheggio al quale le sue truppe ebbero poi ad assoggettarla. Anche se non molto intenso, il bombardamento ebbe lo stesso conseguenze disastrose. I settantotto grossi proiettili d'artiglieria che furono sparati sulla città caddero malauguratamente per non piccola parte su uno dei quartieri più fittamente popolati del centro urbano, quello di Portoria, colpendo anche replicate volte l'ospedale di Pammatone (11). Ben peggiori degli effetti dell'azione militare, ovviamente non sempre controllabili, risultarono peraltro -si dal punto di vista materiale che da quello umano - le conseguenze dei saccheggi e dei soprusi ai quali, non appena penetrate nella città, si abbandonarono le truppe regie. E' una pagina tra le più tristi e vituperevoli della nostra storia, a ricordare la quale nulla appare più drammaticamente eloquente che un rapporto delle stesse autorità di polizia sabaude, nel quale si lamentano "rapine, depredazioni e violenze d'ogni specie che commisero molti soldati specialmente bersaglieri, e qualche carabiniere nelle vicinanze di Genova dalla parte della Polcevera e nel quartiere della città occupato durante l'armistizio. Veramente deplorabili e schifose - aggiunge il rapporto - furono queste violenze in più luoghi: basti il dire che nella Chiesa di S. Rocco alcuni soldati si erano impadroniti dei vasi sacri nel tabernacolo, e li asportavano togliendone le Sante Ostie, se gli Ufficiali non li frenavano. V'ha chi porterebbe in pace il bottino sfacciatamente fatto dalla soldatesca, sebbene fosse proibito e sebbene le vite e le proprietà fossero state garantite, ma le violenze fatte a parecchie donne e donzelle segnano nell'universale un'epoca di tristezza e presso alcuni di rabbia cupa, perché l'usufrutto violento delle persone e del sesso è l'ultima delle barbarie ". Rigorosamente conseguenziale alle considerazioni avanzate relativamente alla natura criminosa dei fatti citati, il rapporto dei funzionari genovesi della polizia regia conclude con queste ferme e comprensive parole: "Il R. Commissario farà senza dubbio severa inchiesta sopra i fatti, che disonorano la milizia, e tutto sarà, speriamo, messo in opera perché si rimarginino le piaghe profonde che da questa insurrezione e dalle sue conseguenze vennero fatte alla nazionalità di due genti che devono formare un sol popolo" (12). Le conclusioni di questo rapporto appaiono molto significative. Esse chiaramente mostrano come anche dalla parte avversa agli insorti vi fosse pur qualcuno che sapeva riconoscere doversi giudicare la situazione non in base al partito preso, ma con un equanime impegno di obbiettività. Il moto di Genova - a meno che non si faccia eccezione per alcuni episodi - ebbe, del resto, una sua linea di composta coerenza. Nè, in verità, poteva essere diversamente. Lo dimostra l'analisi delle sue ragioni, vicine e lontane. Le più appariscenti di esse e, come tali, le più facili a determinarsi, risultano quelle che si possono definire immediate: la volontà cioè di sostituire all'iniziative del governo di Torino clamorosamente fallita quella delle forze democratiche, tramutando la guerra regia in guerra del popolo. Alle masse veniva così commesso non solo di continuare, ma di portare a compimento l'opera alla quale la monarchia si era dimostrata impari. Non posizioni divergenti, dunque, nè, tanto meno, antagonistiche con quelle dello Stato, ma una decisione più fermamente italiana e una mira più marcatamente unitaria. Non si può infatti parlare di velleità centrifughe dei Genovesi in quel momento, nè - con ancora minore ragione - di loro velleità separatiste, se proprio nella loro città essi pensavano dovesse essere trasferito da Torino il Governo, perché esso, operando in un ambiente più sicuro e con il diretto appoggio di una popolazione tra le più decisamente consapevoli delle necessità dell'ora, potesse riprendere la lotta che altrimenti - dopo la disfatta di Novara - sarebbe stata ad esso del tutto impossibile. Questi sentimenti attingevano la forza loro da tutta una serie di fattori ambientali, d'ordine così materiale come psicologico. La forza della tradizione antitedesca della città, incentrata sulla figura di Balilla, e rifatta motivo animatore del presente con le grandi manifestazioni centenarie del 1846, non poteva, così, che agire come il più trascinante degli appelli alla lotta non appena sparsasi la voce - anche se di fatto non veridica che in base alle clausole dell'armistizio la città sarebbe stata occupata da un contingente austriaco. A spiegare lo stato d'animo e il conseguente comportamento dei Genovesi non si può prescindere, d'altra parte, dalla considerazione di altri elementi di carattere diverso ma di altrettanto peso. Genova aveva subito recalcitrante, nel 1815, l'unificazione con il Piemonte e ciò non soltanto per le secolari rivalità che a questo lo avevano contrapposto, ma anche per la ragionata convinzione che i principi in base ai quali tale unificazione avveniva avrebbero, almeno per lungo tempo, significato - come di fatto poi si verificò - un declassamento dell'economa ligure. L'impostazione della politica piemontese, concepita soprattutto in funzione degli interessi della grande proprietà terriera, e le strutture burocratiche rigorosamente accentrate dello Stato ben poco dimostravano di avere in comune con le esigenze dì Genova e della sua regione, esigenze che portavano la città a considerare accettabile l'avvenuta perdita della sua indipendenza solo a patto dell'inserimento in una più grande unità territoriale nel cui ambito le funzioni portuali e mercantilistiche della città stessa potessero trovare la possibilità di più ampi sviluppi. Il fatto era però che più che con l'hinterland piemontese Genova aveva necessità di essere congiunta - in un regime di piena libertà di traffici - con la regione lombarda. L'esito di una guerra vittoriosa contro l'Austria rappresentava per Genova anche e, forse, soprattutto questa decisiva attuazione delle sue aspirazioni e, insieme, delle sue necessità. Siffatte esigenze erano particolarmente sentite dalla borghesia mercantile, il ceto del quale il Governo di Torino, per la sua origine e i suoi orientamenti, si appalesava il meno in grado di interpretare i sentimenti e le richieste. Proprio considerando il comportamento di tali ambienti si può constatare l'esattezza di talune osservazioni di Carlo Baudi di Vesme (13), secondo cui " in Genova il pensiero politico aveva subito l'influenza non dei moderati francesi, ma dei montagnardi e dei mazziniani: l'ideale consisteva non in un regime di tipo inglese o sul tipo di quello di Luigi XVIII o di Luigi Filippo, ma piuttosto in una monarchia nettamente democratica di tipo roussoiano, in cui il sovrano fosse il popolo... Carlo Alberto riposava sull'appoggio inglese, Genova su quello degli uomini del '48 francese. In pratica il contrasto tra la burocrazia torinese e i democratici genovesi dopo lo Statuto verteva su questo punto: i primi ammettevano libere elezioni, ma negavano ogni ulteriore costante controllo sul Governo all'infuori di quello parlamentare: i secondi invece volevano influire per mezzo della stampa e dei circoli politici: di lì il significativo titolo di "anarchisti" con cui venivano gratificati dai Piemontesi ". Questo tipo di politicizzazione non poteva peraltro estendersi che ad ambienti relativamente limitati, anche se presenti nella vita locale con irruente e talvolta clamoroso dinamismo. Ma già, sin da allora, si profilavano le prime avvisaglie di uno scavalcamento sulla sinistra di queste posizioni, che, anche nell'estrema loro punta avanzata costituita dagli uomini del " Circolo Italiano ", rimanevano pur sempre essenzialmente borghesi. Il fatto doveva essere ormai sufficientemente palese se le autorità di polizia genovesi sin dagli inizi del 1849, nelle loro relazioni alle superiori autorità, cominciarono ad insistere sulla presenza e sull'attività in sede locale di elementi ad orientamento socialista. Così in una nota " In Genova negli ultimi mesi del 1848 ", indirizzata, nei primi giorni del 1849, a firma del Questore e degli Assessori di Sicurezza Pubblica, al Commissario Straordinario Domenico Buffa, si afferma che "Il partito repubblicano puro, benché apparentemente unito in un solo, ubbidisce a due diverse direzioni. Il più gran numero ha per capo il Mazzini: Ora - Dio e Popolo- è la divisa sotto cui combatte; mentre una minima frazione di quel partito, e forse la più audace, è ligia alla Setta Socialista francese, i di cui agenti non mancano". E il concetto appare ulteriormente ribadito in un'altra relazione dagli stessi organi genovesi della polizia trasmessa a Torino al Consiglio dei Ministri, qualche giorno dopo - precisamente, il 24 gennaio 1849: - Da qualche tempo i capi del repubblicanismo e del Comunismo italiano sembrano aver designato Genova come uno dei loro centri di operazione -. L'effervescenza che da tempo si andava manifestando a Genova rivelava così, almeno in certi settori dell'opinione pubblica un suo preciso substrato ideologico molto avanzato. Se non vi era qualche cosa di più ciò si doveva non tanto al sistema politico dal quale era retto il Paese quanto alle deficienze delle strutture economiche della città che avevano sino allora impedito la formazione di consistenti categorie di salariati che avessero, con un minimo di qualificazione professionale, sufficienti garanzie di una certa continuità delle loro occupazioni. Si trattava per lo più di lavoratori alla giornata, sempre duramente in lotta con le necessità della vita e perciò appunto doppiamente timorosi di assumere concrete posizioni protestatarie. Tra di essi la categoria dei facchini, una delle più numerose, si dibatteva da tempo tra non poche difficoltà per la scarsità di lavoro che si aveva a lamentare in porto. Tale essendo la situazione economico-sociale della cittadinanza, la parte di essa realmente politicizzata sulla base di nette impostazioni di sinistra non poteva pertanto essere molto numerosa. Essa si trovava di fronte ad un'aristocrazia ricca ed autorevole, nella quasi totalità ormai entrata nell'orbita della monarchia, e ad un clero - quasi tutto o ignorante o retrogrado e gesuitante - (14), la cui influenza sulle diverse classi sociali assumeva sovente forme in netto contrasto con quella che era la naturale evoluzione dei tempi. E' tenendo presente questi fattori d'ordine economico e sociale, prima ancora che quelli di natura strettamente politica, che ci si può rendere più esatto conto di taluni aspetti diversamente assai difficili ad essere penetrati dell'insurrezione genovese dopo la notizia della sconfitta di Novara. Il primo impulso della cittadinanza si appalesò unanime veramente nel senso della sdegnata protesta e della ferma volontà di resistere. La tradizione antitedesca, le aspirazioni unitarie che già dal periodo giacobino avevano in Genova preso uno slancio vigoroso come forse in nessun'altra città, e la consapevolezza della necessita' di certe soluzioni politiche quali presupposto di una concreta ripresa economica furono, in varia maniera, elementi di coagulo della volontà dei Genovesi delle diverse classi sociali. Ma subito dopo cominciarono le prime defezioni, e ciò avvenne non appena ci si rese conto che era illusione il poter premere sulla monarchia sabauda, incapace a fronteggiare il nemico esterno, ma pronta ad agire sino alle estreme conseguenze contro coloro che all'interno del Paese si adoperassero ai fini della realizzazione di una politica diversa da quella da essa perseguita in base ai propri particolari interessi. Le autorità comunali - che, secondo i sistemi allora applicati, non erano nella realtà che espressione di una parte assai ristretta della cittadinanza - presero ad allentare la loro collaborazione con i triumviri del Comitato di Sicurezza Pubblica prima, e del Governo provvisorio poi. Gli ambienti della nobiltà nella loro stragrande maggioranza non ebbero, dal canto loro cuore, di continuare a dissociare le loro sorti da quelle della monarchia sabauda, cui pur sempre guardavano come al più valido baluardo della conservazione, e presero pertanto ad agire di conseguenza, scompaginando con l'operato di taluno dei loro (non ultimi tra i quali alcuni che, in veste di ufficiali, militavano nella Guardia Nazionale, i piani di difesa della città: in questo senso, pur con i ridimensionamenti necessari, si devono trovare fondamentalmente esatte le parole dell'Anonimo di Marsiglia: - I più fieri avversari del popolo non erano già gli assalitori: che molti, e di peggior tempra erano i nemici domestici. Le loro arti subdole, i loro inganni, non il valor piemontese spianarono al La Marmora l'ingresso in Città -. Fu il clima così determinatosi, un clima di sospetti e di tradimenti, uno dei fattori per cui lo spirito di resistenza della gran massa della popolazione cominciò a flettere. Ma fu proprio in quest'ultima fase che l'insurrezione di Genova si appalesò con il suo più vero volto, quello che ci permette di trovare non del tutto ingiustificata per essa la qualifica di - rivoluzione - che taluno le volle attribuire. Certo, data la brevità del tempo nei termini del quale ebbe a concludersi la vicenda, mancano provvedimenti legislativi o altro che offrano la possibilità di un'espressa qualificazione del moto. A ciò si può giungere peraltro attraverso la considerazione di tutta una pluralità di elementi. Anzitutto il fatto che nell'ultima fase della lotta la decisione dei combattenti genovesi - secondo quanto è deducibile dai rapporti degli organi di polizia regii - si raffermò al massimo, incentrandosi soprattutto sulla - resistenza dei proletari -. Il comportamento, poi, di questi combattenti che dovette essere in tutto e per tutto degno e consapevole se nel già citato rapporto del Questore e degli Assessori di Sicurezza Pubblica inviato in data 25 aprile 1849 al Consiglio dei Ministri, a Torino, si possono, tra le altre, leggere frasi di questo genere: -Devesi rendere la lode meritata in queste luttuose circostanze dai braccianti armati. Molti temevano un saccheggio specialmente nei sì lunghi giorni dell'armistizio quando può dirsi che non vi fosse Governo; ed invece non si dette quasi esempio di ruberie, e molto meno di ruberie armate: cosa rarissima e quasi unica nei paesi ricchi caduti in mano di poveri e di operai senza disciplina e senza capi -. Tanto più significativo questo riconoscimento e per la fonte da cui proviene e per essere stato pronunciato - cosa che risulta dalle parole con cui esso si conchiude - superando il tenace e in quel tempo virtualmente incontrastato pregiudizio che dire povero e dire delinquente non faccia differenza alcuna. Ma a qualificare il moto genovese dal punto di vista ideologico sta anche un altro fatto, quello di cui risultarono espressione i folti gruppi di insorti che - occupata la città da parte del La Marmora - affluirono a Roma in difesa di quella repubblica. Le lettere di Mazzini di quel periodo fanno replicate volte cenno di questa volontà dei combattenti genovesi di continuare la lotta là dove la bandiera della dignità nazionale ancora non era stata ammainata. Ed è proprio in ciò - in quell'anno 1849 tanto carico di eventi - la saldatura ideale tra le vicende della Superba e quelle dell'Urbe, momenti, le une e le altre, di uno stesso impegno di libertà, ed espressione di una comune aspirazione al nascere di una nuova Italia in una nuova Europa. Perché - a ben considerare - questo fu il senso e questa la realtà anche dell'insurrezione genovese, un senso e una realtà suggellati con il loro sangue non soltanto da schiere di combattenti tratte dalla popolazione locale, ma anche da volontari accorsi da ogni parte d'Italia e perfino - come un agguerrito reparto di polacchi - da lontani paesi stranieri. E che l'insurrezione di Genova sia stata ben più che un episodio da considerarsi - come taluno pretenderebbe - solo in sè stesso è dimostrato altresì dall'intensità del lavorio diplomatico in connessione ad essa determinatosi. Il comportamento e gli interventi, spesso massicciamente pesanti, dei rappresentanti consolari dei diversi Paesi residenti nel capoluogo ligure sono al proposito assai significativi, e sarebbe perciò opportuno che, colmando una lacuna sinora aperta, venissero fatti, l'uno e gli altri, oggetto di specifiche ricerche e di una attenta valutazione. Anche attraverso questa via si giungerebbe ad un'ulteriore prova della reale portata del moto genovese, e al suo migliore inquadramento nella storia della città negli ultimi due secoli, una storia che è testimonianza soprattutto di una coerente ininterrotta continuità ideale. LEONIDA BALESTRERI Note: |